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bella la riunione preparatoria alla mostra di ieri sera. prima abbiamo selezionato le cose da esporre. ottantacinque pezzi, tra ceramiche, sculture, pitture e collages. poi abbiamo tirato fuori la carta per chi deve preparare l’introduzione al catalogo e chi farà la biografia. articoli su riviste, interviste, cataloghi, carteggi tra mio padre e architetti, pittori, amici suoi. foto, tante foto. anche di famiglia. ci sono anche io da piccolo con mio fratello. me le fece l’architetto famoso, ma io ero malato, forse varicella, ero in poltrona serio. mio fratello giocava col lego, e sembra lapo suo figlio, che gioca oggi col lego esattamente dove fu fotografato lui. identici, due gocce d’acqua, a distanza di quarant’anni. e poi lettere buffe, e colorate, e disegnate strane, con quelle grafie grosse e pulite che usava chi disegnava parecchio e aveva dimestichezza col segno. in una si fa riferimento a qualcosa come ad un cazzo enorme da dare nel culo alle signore in pelliccia. allora guardando tutta ‘sta roba pensavo che negli anni sessanta erano davvero liberi. c’era spazio per costruire, che le megalopoli non si erano inventate. c’era spazio per la fantasia, che fino ad allora non era stata forzata ad esplorare spazi e forme davvero nuovi. c’era spazio per fare, che appena ti eri inventato una cosa nuova, bisognava farla, e farla davvero, che poi avevi da venderla perché la gente poi la comprava. già, c’era un bisogno di nuovo che era diffuso, l’aria stessa ti diceva che avevi bisogno di libertà. e allora la gente si esprimeva e cercava e lavorava volentieri. mi ricordo che mio padre tornava a casa meravigliato che quando lavoravano lui e gli architetti nuovi i tornianti e i pittori facevano volentieri gli straordinari. dicevano che era divertente lavorare con questi uomini nuovi pieni di idee strane che facevano robe che allora sembravano improbabili. e il bello è che poi tutta questa roba improbabile piaceva ai clienti, che ne chiedevano dieci, cento, mille pezzi. e di queste cose improbabili si riempivano casse di legno e cartone piene di paglia che venivano messe nei containers che poi i camion portavano a livorno e venivano messi su navi che andavano in america e in giappone e a hong kong e alla fine succedeva che eri in un ristorante giapponese e su una mensola vedevi una roba strana che voleva essere un vaso per fiori con dentro fiori giapponesi che nessuno aveva mai visto ma ci stava proprio bene. e quel vaso per fiori lo avevano inventato giovani ceramisti che fummavano disegnavano e ridevano la sera dopo cena in una fabbrica toscana coi neon accesi e gli operai curiosi. ecco, ieri mi è sembrato di vivere quei momenti lì. quando c’era spazio. per cercare, inventare, fare. ora mi guardo intorno, e mi sembra che di spazio non ce ne sia più tanto. abbiamo riempito il mondo, e manca un po’ l’aria. peccato.


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